The Art + Science Marketing
L’intelligenza artificiale è ormai entrata nella quotidianità di tutti noi, e anche nel mondo del web marketing se ne fa un grande uso.
L’anno scorso ne abbiamo parlato al Florence Marketing Experience insieme a Gianluca, oggi cerchiamo di conoscere meglio colui che si presenta dicendo che “abusa di internet dal 1995, ma ammira quelli che la odiano“.
Iniziamo col conoscerci meglio: chi sei e cosa fai nella vita?
Fondamentalmente mi ritengo un marketer a cui piace divulgare e condividere – per questo ho iniziato a scrivere online nel 2004 su minimarketing.it e non ho più smesso.
Nella vita lavoro con le aziende per adattare il loro sistema di marketing per l’epoca del digitale e insegno all’Università IULM a Milano.
Quando e come hai iniziato a fare il tuo lavoro?
Beh, molto tempo fa. sono uscito dalla Bocconi nel 95, e dal 97 lavoro sull’online, “before it was cool” 🙂
Ho iniziato integrando molto presto nel marketing mix tradizionale gli strumenti digitali, poi occupandomi di servizi SAAS, e poi di e-commerce, in tempi davvero pionieristici.
Successivamente, cosa che faccio tutt’ora, mi occupo di fare, insegnare e supportare marketing – senza prefissi – in un ecosistema competitivo profondamente cambiato dal digitale.
Da quando hai iniziato a fare questo lavoro i tempi sono molto cambiati. Allora probabilmente non esistevano corsi di studio specifici e, come molti di noi, ti sei formato nel tuo campo da autodidatta o adattando il tuo corso di studi e la tua esperienza a quello che sognavi essere il tuo futuro. Oggi come consiglieresti di iniziare a chi si vuole approcciare al tuo mondo lavorativo?
Verissimo, fino al 2010 la formazione sul digitale era molto limitata, ingessata, o eccessivamente tecnica. Per questo abbiamo fondato Digital Update, una scuola “fluida” che mette a disposizione i migliori docenti “dal campo”, che portano in aula la loro esperienza concreta.
Personalmente, io ho sempre esplorato tantissimo sul mercato americano ed europeo, facendo scouting di prodotti e trend, leggendo paper e ricerche internazionali e quasi sempre questo mi consente di vedere le cose in anticipo sui tempi.
Abbiamo la sfortuna di vivere in un paese che non è certo un early adopter in campo digitale e dell’innovazione in generale.
Almeno le cose non ci prendono alla sprovvista, però 😉
Per me l’autoformazione incessante è quello che contraddistingue i migliori di ogni mercato.
Per il futuro ripeto sempre a tutti che la capacità di adattarsi al cambiamento, più che di prevederlo, consente di minimizzare i rischi di obsolescenza della propria carriera e del proprio business. Rimanere attaccati al mutamento.
Nello specifico credo che essere T-shaped, cioè avere sì una specializzazione ma anche capacità di unire diverse discipline sia la chiave per essere sempre indispensabili, e quindi appetibili, in un mercato di cui non conosciamo la domanda nemmeno a cinque anni.

L’anno scorso all’FMX hai parlato di “marketing degli strumenti” dichiarando che, ad esempio, utilizzare il “lookalike” è abdicare il Marketing, ci puoi fare qualche altro esempio di automazioni che eviteresti di utilizzare? Sostieni che il modo migliore per fare del buon marketing sia “tornare a pensare qual è il modello di business di un’azienda, quali sono i clienti e i valori che vuole portare, insomma avere un’identità”, non credi che questo sia abbastanza facile con aziende strutturate e, invece, molto complicato per le piccole e medie imprese così tipiche qui in Italia? Come supereresti questo scoglio?
Il marketing degli strumenti è una piaga.
Una generazione di marketer è cresciuta con una specializzazione basata sullo strumento anziché su di una funzione del funnel: e ricomporre le logiche quando la necessità diventa evidente è poi difficile, non ne abbiamo più la cultura.
Non vediamo più la strategia di marketing generale, presi tra un “influencer marketing” e un “search engine marketing”.
Perché oggi il digitale è talmente pervasivo, che non è più uno strumento, ma solo un livello, uno strato che pervade qualsiasi attività, dall’advertising, alle PR, al direct marketing, alle vendite (multicanalità, e-commerce, ecc.).
In realtà le automazioni — basate sui dati — sono utilissime, consentono di evitare errori di bias (cioè prendere decisioni a sentimento o basate sull’opinione dello stipendio più alto nella stanza) e risparmiare un sacco di tempo inutile e di scalare attività in modo mai visto prima.
Quello che intendevo è che non dobbiamo confondere tattiche (trovare audience simili) con la strategia (Chi sono io? A chi mi rivolgo? Come mi differenzio?). Quindi è giustissimo agire per esempio sul costo di acquisizione, e fare in modo che sia il minore possibile usando AI ecc. ma attenzione che nessuna automazione riesce a comprendere ancora in modo globale la strategia e il business complessivo di un’azienda. E in questo caso potrebbe massimizzare il numero di acquisizioni di clienti a scapito della loro customer lifetime value, ecc.
Non credo ci sia una grande differenza tra PMI e grandi aziende su questi temi, ma solo una diversa maturità generale.
Le piccole non usano ancora abbastanza i dati, e a volte nemmeno il marketing moderno, e potrebbero essere accecate dalla tentazione del pilota automatico, “ci pensa Facebook o Google”; le grandi hanno il problema spesso di non avere obiettivi condivisi tra dipartimenti in tutta la customer journey, per cui la comunicazione ottimizza il numero di contatti senza tener conto delle vendite, il marketing ottimizza il risultato delle vendite usando solo leve di breve periodo, ma se ognuno guarda solo al suo orticello non si massimizza il risultato finale, anche se “siamo digitali”.
Chi vuol essere per tutti normalmente non è per nessuno, questo ci porta a parlare di nicchie: credi che ogni prodotto possa avere la sua nicchia o ci sono delle eccezioni? Ci fai un esempio?
È l’epoca dell’accesso facile: possiamo googlare qualsiasi prodotto ci venga in mente, e la domanda ci troverà.
Per questo per i brand di massa è sempre più complicato mantenere le vecchie quote di mercato: loro devono vincere sempre, mentre per i brand di nicchia basta vincere una volta.
Naturalmente non ci sono ricette per qualunque settore.
Alcuni si prestano meglio, per esempio il fashion o il food, e infatti vediamo una serie di microbrand attivare direttamente i consumatori passando dai social e bypassando la filiera distributiva (o arrivandoci in un secondo momento).
Lazzari è un caso di fashion di successo che parla direttamente a un consumatore, direttamente. Come due persone che si conoscono bene.
Molto più difficile è per le commodities: quando vedo Amazon produrre carta igienica a proprio marchio significa che lì non ci sono nicchie che tengano, il servizio è re.
Voglio un prodotto accettabile con meno frizione possibile, a un costo accettabile, stop.
Tu hai chiesto “qual è l’ultimo brand creato dal digital marketing”…hai trovato la risposta?
La risposta non c’è, credo.
Perché il digitale è molto bravo nel parlare ai singoli, ma è inefficace nel creare cultura condivisa (almeno se usato da solo).
Abbiamo bisogno di tormentoni, per i brand di massa, di creare esperienze che sappiamo che altri conoscono.
Con i banner non si creano.
Diverso è il caso dei microbrand. Lì è probabile che il fenomeno sia possibile su una scala minore, la community, e quindi perfettamente a suo agio nel digital.
Nato davanti alla TV ma con un’esperienza ventennale di management su digital marketing, ecommerce e comunicazione online per le maggiori aziende italiane. Ho creato il progetto di formazione Digital Update con Alessandra Farabegoli e insegno digital marketing all’Università IULM di Milano. Ho scritto Mobile Marketing per Hoepli, Vendere Online per Sole 24 Ore, Social Commerce per Apogeo, e 91 Discutibili Tesi per me stesso.
“Il rischio dell’AI è un po’ il populismo del marketing”, ci fai qualche esempio riguardo a questa tua affermazione?
Populismo significa esaltare il popolo in sé come depositario dei valori della società.
Oggi si fa lo stesso con l’intelligenza artificiale.
Se ogni brand mettesse in mano alla AI la propria strategia, con i corretti dati, ogni strategia sarebbe la stessa.
I dati daranno al brand una soluzione scontata, quella con la probabilità più elevata di successo. Ma sappiamo che i brand sono cigni neri, che nascono quasi sempre dall’improbabilità, dal caso, dall’eccezione.
E’ passato quasi un anno dal tuo intervento e vediamo che il problema del retail continua ad essere che ha un sacco di dati ma non li usa o non sa quali osare?
Qual è il consiglio che daresti a un consulente che si trovasse alle prese con questa tipologia di cliente?
Le cose non sono cambiate tantissimo, in Italia almeno.
Si continua a fare convegni sulla personalizzazione del messaggio, dei dati che consentono di offrire a ogni consumatore il prodotto più adatto, ma nessuno lo fa.
Ancora volantini generici, newsletter generiche, ecc.
E la guerra dei prezzi rimane quindi l’unica arma competitiva, che però finirà per danneggiare tutto il settore, in attesa che Amazon cambi completamente la logistica del settore, e che quello che ora è un asset difensivo fortissimo (il punto vendita), divenga un peso da ripensare.
Qual è stata la sfida più difficile che hai dovuto affrontare seguendo un cliente?
La sfida più difficile è sempre il cambiamento organizzativo.
Cambiare metodi e mentalità in organizzazioni complesse è un processo lungo e non sempre va a buon fine.
Ancora, molto spesso anche le agenzie non sono abituate a interagire tra di loro.
Il problema è il silos. Dati non condivisi, cose così.
Ultima domanda: ti piace il tuo lavoro? Lo cambieresti? E, se sì, cosa vorresti fare?
Adoro questo gioco.
Proporre un prodotto a un target è più eccitante di una finale di Wimbledon.
Le persone sono sfuggenti e irrazionali.
Ogni volta che sei sicuro di avere fatto centro hai di fronte lo spettro di un totale fallimento. Finché sono in grado di giocare, gioco, come Federer 🙂
L’unica cosa che mi piace altrettanto è scrivere.
E non è detto che prima o poi mi dedichi solo a quello.